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DIGIUNO  TOTALE  E  PER  SEMPRE!
(1942-1955)

Prime avvisaglie

Nel 1942 inizia un digiuno totale, di solidi e di liquidi, che durerà sino alla morte!

Ma brevi periodi di digiuno si sono verificati già in anni precedenti.

Alla fine di aprile del 37 passa giorni vomitando giorno e notte. (vd. cap 3)

Dopo la prima estasi della Passione, nell’ottobre 38, sta 5 giorni consecutivi senza alimento e in continui vomiti.( vd. c. 4)

Alla fine di  novembre del 39 scrive a p.Pinho

Addio, padre mio, non mi posso alimentare. Ho tanti dolori!  L (29-11-39)

Digiuno definitivo

Dalla deposizione del dott. Azevedo al Processo Diocesano stralciamo:

(...) Dal 27 marzo 42 sino alla fine di giugno dello stesso anno, inghiottiva acqua con un po’ di sale, in cui si faceva bollire un filo d’olio.(...) Nel giugno mi disse: “Mi lasci riposare e non mi obblighi a prendere cosa alcuna. Le risposi: “Poiché sta meglio così, si faccia la sua volontà” (...)

Una cosa trovavo strana: vivendo senza alimentazione dal 1942 al 1955, ebbe ogni mese le mestruazioni, fino a 47 anni d’età. (Summ  pp 46-47)

Per avere un’idea della sofferenza procuratale dal digiuno, stralciamo da due lettere al direttore:

(...) Non posso descrivere le nostalgie che ho di alimentazione: desidero mettere in bocca tutto; vorrei alimentarmi con alimenti che mi piacciono e non riesco affatto.

Ma sia lodato Gesù: la mia intelligenza è vivissima.

Offro tutto il mio martirio per amore a Gesù, per riparare tanti crimini, per salvargli le anime e per dar luce a coloro che mi tolsero la luce e il conforto sulla Terra (vd. C  7)  L (22-8-42) 

(...) Padre mio, continuo senza alimentarmi. Non ho fame, ma sento la necessità di mettere in bocca tutto quanto vi è; ho delle ansie divoratrici.

Se Lei sapesse quanto mi costa questa nuova sofferenza! Sia per Gesù e per le anime! (...)  L (7-11-42)

Occorrono controlli!

Un fatto così straordinario suscita scalpore. Inoltre, non mancano coloro che pensano ad una mistifcazione!

Il dott. Azevedo ne parla all’Arcivescovo Primate di Braga, il quale consiglia

il controllo sia fatto in un Ospedale.

Il dott. Azevedo prepara un consulto con il dott. prof. Carlo Lima, docente universitario e il dott. Gomes de Araujo, direttore dell’Ospedale “Rifugio di paralisi infantile”di “Foce del Douro”, a Oporto :

Per soddisfare il desiderio e la volontà del signor Arcivescovo, mi assoggettai ancora una volta ad un nuovo controllo medico, che avvenne il giorno 27 maggio 1943.  ( A,  p. 59)

I medici rimangono bene impressionati, ma esigono un controllo in una Casa

di Salute, quindi viene scelta la clinica del dott Gomes de Araujo.

Il 4 giugno venne il mio medico curante ( Azevedo) con il mio confessore ordinario (p. Alberto Gomes) a comunicarmi la decisione dei medici e a convincere me e la mia famiglia della opportunità che io andassi al “Rifugio di paralisi infantile” di “Foz do Douro” e vi rimanessi un mese in una camera riservata, affinchè fosse controllato più da vicino tutto quanto avveniva in me.

Io risposi immediatamente di no; ma subito mi pentii di quanto avevo detto e, per l’obbedienza dovuta, acconsentii. Non volevo disobbedire al signor Arcivescovo né lasciare in una situazione critica il mio direttore spirituale, il medico curante e tutti coloro che tanto si erano interessati di me. Misi però queste condizioni:

1) poter ricevere Gesù Eucaristico tutti i giorni

2) essere sempre in compagnia di mia sorella

3) non essere più sottoposta ad alcun esame, poiché andavo per essere osservata e non sottoposta a visite.

Nei giorni nel quali rimasi qui chiesi a Gesù e alla Mammina che mi dessero forza e coraggio per essere io di sostegno ai miei che erano desolati. (A, p 61)

Quaranta giorni sotto rigorosa osservazione

Il 10 giugno 1943 Alexandrina inizia il suo internamento, che durerà non 30 ma 40 giorni, come vedremo: il famoso “40” biblico!

Arrivò il 10 giugno ; tutto era pronto per il mio viaggio.

L’amarezza che si impossessò di me era enorme, ma nello stesso tempo sentivo un coraggio tanto grande che con esso potevo nascondere quanto mi passava nell’anima. Confidavo tanto in Gesù. Ero così convinta del suo aiuto divino da pensare persino che, se fosse stato necessario, Gesù avrebbe mandato i suoi angeli ad aiutarmi nell’esilio in cui mi sarei trovata.

Quando il medico (Azevedo) giunse presso di me, non aveva il coraggio di dirmi che bisognava partire, ma io gli dissi:

“Andiamo! Chi non parte non ritorna”.

Allora cominciarono i commiati. Solo il Signore sa quanto mi costò questa separazione, poiché tutti i miei vennero ad abbracciarmi e a baciarmi pieni di dolore. Io fissavo solo il Sacro Cuore di Gesù e la cara Mammina del Cielo per chiedere loro che mi dessero coraggio e forze.

Scendendo le scale sulla barella, dissi loro per rianimarli: “Coraggio! Tutto questo è per Gesù e per le anime ! ”

Non potei dire di più, tale era l’oppressione che sentivo nel mio cuore; e sarebbe stato impossibile trattenere le lacrime. Volevo trattenerle, non per me, ma per non essere causa di maggior dolore per i miei.

Quando fui posta nell’ambulanza, circondata da più di 100 persone, vidi le lacrime negli occhi di quasi tutti e udii i singhiozzi di mia madre e di altri parenti. E’ indicibile il mio dolore. Ero ansiosa di partitre, e di partire in fretta. Il mio cuore pulsava con tanta violenza che pareva staccarmi le costole. In quel momento dissi a Gesù:

“Accettate, mio Gesù, tutti i palpiti del mio cuore per amore a Voi e per la salvezza delle anime!”

Il viaggio fu difficile perchè il mio cuore soffriva immensamente e a volte pareva stesse per soccombere.

Guardavo mia sorella e la vedevo molto desolata.

Il medico mi diceva che non costava viaggiare con un’ammalata come me, perché mi vedeva sempre col sorriso sulle labbra.

Ma solo Gesù sapeva l’amarezza del mio cuore e le torture del mio povero corpo. Per le scosse dell'ambulanza (la strada non era asfaltata allora) sentivo nel cuore grandi dolori, ma ripetevo sempre:

“Tutto per amore a Voi, mio Gesù! E che la notte oscura che sento nella mia anima serva per dare luce alle anime”.

Nel giungere alle ultime case di Balasar, vidi che il signor Sampaio (l’amico che l’aveva condotta  ad Oporto durante il 4° viaggio ; vd. C. 5)  alzò le tendine dell’ambulanza e notai che spuntavano le lacrime negli occhi del medico che era al mio fianco ed esclamò: poveretti!

Nell’udire questo, domandai cosa c’era. Mi dissero che dai margini della strada alcuni fanciulli lanciavano fiori verso il nostro veicolo. Mi sentii allora tanto commossa per quei bambini che le lacrime forzavano per colarmi sulle guance e a stento potei trattenerle.

Arrivati a Matozinhos (cittadina sul mare a pochi  km. da Oporto), il medico alzò la tendina della finestrella dell’ambulanza affinchè io guardassi il mare.

In quel momento, un gran silenzio si impadronì del mio cuore e, nel vedere il movimento continuo delle onde che arrivavano sino alla spiaggia, chiesi a Gesù che anche il mio amore fosse così: senza interruzione e duraturo.

Giunti al “Rifugio”, il signor dott. Gomes de Araujo non volle che l’ambulanza arrivasse fino alla porta; perciò disse agli addetti che tirassero fuori la barella e mi portassero così lungo la strada dopo avermi coperto il viso affinchè nessuno mi vedesse.

Nello stesso momento il mio cuore divenne più triste, poiché presentiva già cosa sarebbero stati per me quei lunghi 30 giorni che avrei trascorsi in quella Casa.

Mentre mi trasportavano col viso coperto, mi pareva di essere in una cassa. La mia tristezza cresceva e domandavo a me stessa: che delitto commisi io?

La salita delle scale del “Rifugio” fu un martirio, perché mi portarono con la testa in giù! Mi scoprirono il volto solo nella camera. E allora mi vidi attorniata dal dott.Araujo e da alcune signore che sarebbero diventate le mie vigilatrici fino a che sarei rimasta là. (...)

Il giorno seguente, venerdì, cominciò per me il vero calvario in quella Casa. All’ora dell’estasi, come avviene in tutti i venerdì, mia sorella mi venne vicino ed erano pure presenti il mio medico curante (Azevedo, che registra l’estasi, per consegnare la relazione ai medici), il signor Sampaio e una infermiera. Agli osservatori non sfuggì nulla, neppure i minimi particolari, che furono poi divulgati e commentati. (...)

Deolinda, che aveva l’ordine di stare lontana dalla camera, era amareggiata e invocava: “Non potrò vedere mia sorella nemmeno dalla porta della camera?

Il vederci, può forse alimentarla?”

E, chinata sul mio letto, piangeva inconsolabile. Fu allora che le dissi:

“Non affliggerti! Il Signore sarà con noi”.(...)

Nella notte seguente ha una grave crisi di vomito, aggravata dal fatto di non avere nessuno che l’aiuta. Rimane in una grande prostrazione. Il medico sussurra alla infermiera:

“E’ spacciata, è spacciata!”

Fu allora che aprii gli occhi e gli dissi: “Signor dottore, anche a casa avevo di queste crisi”.

La sua risposta, molto pronta fu:

“Signorina, non pensi di essere venuta qui per digiunare!”

Capii dove voleva arrivare e mi sentii profondamente ferita.

Il medico (Araujo) , quando seppe cosa era avvenuto venerdì, volle gli scritti dell’estasi e fu allora che disse:

“Sembra impossibile che il dott. Azevedo, ragazzo tanto intelligente, si lasci sedurre da queste cose!

Questo deve finire! Intanto scompaiano tutti gli orologi!”

Come se il Signore avesse bisogno di orologi!

Vedendomi in quello stato, volevano intervenire con medicine, ma io non consentii né consentirei. Quante volte le vigilatrici mi si avvicinarono convinte che ero morta!

Furono 5 giorni di continua agonia, più dell’anima che del corpo, poiché in quelle crisi non permettevano che mia sorella venisse presso di me, e io in casa avevo bisogno di due persone che mi aiutassero!

Tutti erano persuasi che quella crisi fosse dovuta a mancanza di alimentazione.

(...) Come si ingannavano! Il mio alimento veniva dall’Ostia benedetta della mia Comunione di ogni mattina.(...)

Il dott. Azevedo torna a farle visita e con forza riafferma che non permette che intervengano con medicine o alimenti, a meno che Alexandrina non lo chieda. E alla vigilatrice aggiunge:

“Ciò che assicuro è una cosa: morirà lei, signora, morirò io, ma Alexandrina non morirà in questo Rifugio”!

Seduto vicino a me, mi diede un po’ di conforto: ne avevo bisogno!

Poiché il Signore permise così e giudicò che era bene, passati 5 giorni, i vomiti cessarono completamente, ritornò il colorito normale sul volto e insieme la luminosità degli occhi.

Durante la successiva visita del mio medico curante, che veniva di frequente a vedermi, la vigilatrice uscì con questa frase:

“Guardi, signor dottore, guardi quella faccia!”

Egli, sempre delicato ma con fermezza, rispose: “Sono state le cotolette che ha mangiato e le iniezioni che ha fatto” .

Gesù volle ancora una volta mostrare il suo potere in questa sua umile creatura.

Da alcuni discorsi, Alexandrina sente parlare di isterismo. Allora dice ad Azevedo:

“Per essere trattata come isterica, non  ho bisogno di rimanere qui!”

Ma lui mi rispose che avessi coraggio e fiducia. Così feci per compiere in tutto la volontà santissima di Dio.

Il dott. Araujo va a farle visita due o tre volte al giorno, in ore diverse. Le fa molti discorsi, tentando di convincerla che quanto avviene in lei non è voluto da Dio:

“Si convinca, signorina, che Dio non vuole che lei soffra. Se vuole salvare gli altri, li salvi lui, se è vero che ha potere per questo! Se è vero che Dio ricompensa coloro che soffrono, per lei non ha ormai più ricompensa adeguata da darle per quanto ha sofferto”.

Ma, mio Dio, io so che Voi siete infinito, infinito nella potenza, infinito nei vostri premi. Se fosse come dice lui, per che cosa soffrirei io?

Egli accompagnava le sue parole con lo sguardo malizioso del demonio, così mi pareva.

Io allora gli risposi: “Sono tanto grandi, tanto grandi le cose del Signore! E noi siamo tanto piccoli, tanto piccoli, almeno io!”

Rimase interdetto, poi, indignato disse: “Ha ragione, ma io sono una persona un po’ più grande!” E se ne uscì.

Quanto era lontano, il medico, dal conoscere la legge d’amore delle anime! Se egli sapesse il valore di un’anima, allora vedrebbe che nulla di tutto quanto facciamo per salvarle è di troppo.

Era una pioggia continua di umiliazioni e sacrifici. Oh, se io sapessi soffrire bene, quanto avrei da offrire a Gesù! Sorgevano sempre cose nuove che mi umiliavano e costavano sacrificio.

Avevo ai piedi del letto una fotografia della piccola Giacinta (donatale da p.Pinho. Si conserva ora sulla parete a fianco del letto di Alexandrina).

La guardavo con amore, senza più timore che le vigilatrici lo riferissero al medico, e dicevo:

“Cara Giacinta, tu, pur tanto piccola, hai provato quanto costa questo. Aiutami, là dal Cielo dove sei!”

Solo l’aiuto del Cielo, solo le preghiere delle anime buone potevano essere la mia forza per salire tanto doloroso calvario e sopportare il peso di così pesantissima croce.(...)

Cantavo lodi a Gesù e alla Mammina celeste, fingendo di godere la più grande delle gioie. Cantavo con il massimo degli entusiasmi; ma dentro di me e perfino ai miei occhi, pareva non vi fosse né sole né giorno.

Un giorno il dott. Araujo le fa un lungo discorso per convincerla che si illude. Le racconta di un suo lavoro fatto da studente, che gli è costato tanto studio; ma alla fine il professore gli aveva detto:“Non vedi che ti sei ingannato, per questa e per quella ragione?”

“Io rimasi di stucco; mio Dio, tante ore perdute! Tante ore di illusioni! Tutto è caduto a terra!”

Io, che già da molto tempo avevo capito dove voleva arrivare, sorrisi e dissi:

“Non cade, signor dottore! Mi guida un direttore molto santo e molto saggio e che ha studiato il mio Caso per alcuni anni. E, se l’opera è di Dio. non vi è nulla che la butti a terra!”

Egli, un poco imbarazzato, mi disse:

“Ah, no!”  Fingendo, con tali parole, che non fosse questo ciò che voleva dire.

Data la mia risposta, se ne andò, ed era ora!

Durante quel lungo e tormentoso esilio, la sua mamma va a trovarla due volte: il 16° a il 30° giorno, che avrebbe dovuto essere quello del ritorno a casa.

Avevo tanta nostalgia di lei! Potè stare così poco tempo vicina a me, e sempre sotto gli sguardi indagatori delle spie.

Ella piangeva e io fingevo di non aver cuore: sorridevo e scherzavo con lei.

La accarezzavo e col mio sorriso ingannatore nascondevo l’amarezza che avevo nell’anima e trattenevo le lacrime che volevano scorrermi lungo le guance.

Il dott. Araujo, indignato per la incredulità del suo collega dott.Alvaro circa il Caso Alexandrina, lo sfida a mandare una persona di sua fiducia a controllare per altri giorni. Venne scelta una sorella del dott. Alvaro.

Il dott. Araujo cercò di convincermi che era conveniente passare lì ancora altri 10 giorni, sebbene egli fosse convintissimo della verità.(...) Io gli risposi:

“Chi è stato 30, può stare 40!”

Rimase deciso così.

Si ritornò al rigore di prima, anzi, peggiore. Si proibì persino che mi si parlasse di Gesù in qualsiasi modo, pensando con questo di poter strappare ciò che sta dentro di noi! (...)

Non mancarono le seduzioni delle vigilatrici per farmi mangiare qualcosa delle loro refezioni. Quando mi allungavano i bocconcini appetitosi senza parlare, mi limitavo a sorridere loro. E quando offrivano il cibo parlando, ringraziavo: “Molte grazie!” Ma sempre sorridendo, fingendo di non comprendere la loro malizia.

Finalmente arriva il sospirato momento di lasciare quel carcere!

Le due sorelle hanno la soddisfazione di sentirsi dire dal grande capo:

“Ad ottobre avranno a Balasar la mia visita, non come medico-spia, ma come amico che le stima”  ( A,  p.71)

E mantenne la promessa!

Una grande soddisfazione. Ma quanto è costata!

In quel pomeriggio del 20 luglio vennero a salutarmi le suore e le vigilatrici. Tutte mi offrirono doni.(fiori, profumi).

Né i profumi, né i fiori né la folla che attorniava l’ambulanza (nelle soste) lungo il viaggio furono per me motivo della più piccola vanità.

Quando ci fermavamo per farmi riposare e vedevo tanta gente avvicinarsi a me con tante esclamazioni, dicevo subito al mio medico curante: “Andiamo, andiamo, signor dottore!”

Durante il viaggio vissi più dentro di me che fuori: il mare e tutto quanto si presentava ai miei occhi mi invitavano al silenzio, alla vita intima con Dio. Non avevo di che essere vanitosa. Tutto era per me motivo per umiliarmi e farmi piccola, fino a sparire.

Che cosa sarebbe di me, se fossi giudicata dal mondo! Buttarono tanta malizia dove non ce n’era affatto. Perdonateli, Gesù! Non conoscono le vostre cose.(...)

Quando arrivai nella mia cameretta, mi pareva che non fosse vero!

Ci furono delle lacrime, ma questa volta molto diverse: erano di gioia!

Posta nel mio letto, per molto tempo non potei sopportare che mi toccassero: mi sfuggivano grandi gemiti per i dolori quanto mai forti. Fu l’effetto del viaggio.

Ora io dico: per chi mi sono sacrificata così? Sarà anche questo per vanità?

O mondo, o povero mondo! Vanità, ma per che cosa? Cosa siamo noi, senza Dio? Chi sarebbe capace di soffrire tanto per una grandezza ed una vanità del mondo? (...)

Aveva ragione il mio medico curante quando, durante il viaggio di andata, mettendomi un fazzoletto bagnato sulla fronte, mi diceva:

“Ha qualche capello bianco, ma al suo ritorno ne avrà molti di più!”

E infatti così avvenne. Egli già prevedeva tutto quanto mi aspettava.

Ma è tanto bello passare attraverso tutto, per amore a Gesù!  (A, pp 61-72)

Come commento a conclusione di questa grande prova, Gesù dice:

“Tutto quanto è di Gesù non cade: sta saldo in mezzo a tutte le tempeste, splende, trionfa. Regna Gesù con la sua innamorata”. (...)

Anche qui Alexandrina manifesta la sua umiltà:

“O mio Gesù, molte grazie! Trionfate e regnate Voi per la vostra gloria e la salvezza delle anime. Io voglio essere piccola agli occhi del mondo, ma grande nell’amore, nel potere di salvarvi anime, in quel potere che è vostro, in quell’amore che solo a Voi appartiene”.  S (7-8-43)

Il digiuno di Alexandrina è un martirio di salvezza

Più volte Alexandrina sente Gesù affermarle questo.

“Se tu potessi vedere le anime che furono salvate da te! E ultimamente, in questi 3 anni del tuo digiuno! Quale grande mezzo per salvare i peccatori!

Mostro qui il mio potere, le mie ansie e il mio amore per loro.(...) Il martirio accompagnato dal digiuno sarà il maggior mezzo, l’ultimo mezzo di salvezza.

(...) Il martirio salirà al massimo, l’amore raggiungerà la massima altezza.

L’amore a Gesù, il dolore per le anime: riparazione senza l’uguale! (...)  S (30-3-45)

 

Alexandrina interpreta la sua fame fisica come “segno” di una realtà spirituale:

anche lei, come Gesù col quale tende ad identificarsi, sente fame di possedere il mondo.

Il 2 aprile del 54 detterà:

 Non potrò mai dire ciò che sentii il giorno 27 marzo, 12° anniversario del giorno in cui cessai di alimentarmi: la fame era tanto grande, tanto grande, era infinita. Ma non era fame di alimentazione.

Stavo come se avessi il petto ed il cuore aperti. Il mondo veniva verso di me come se fosse onde del mare. Quante più onde avevo, tante più ne venivano e io tanto più andavo incontro ad esse e maggiore era l’ansia di possederle.

Quel mare era l’umanità, e tutto quel mare era mio e poteva essere contenuto nel mio petto e cuore. Soffrii amaramente perché non tutto quel mare voleva entrare in me. Soffrii da sola, in silenzio. I miei sfoghi furono con Gesù e con Mammina.  S (2-4-54)