CAPITOLO 14
(1942-1955)

DIGIUNO COMPLETO, E PER SEMPRE!

Io continuo senza alimentarmi: non posso neppure saziare con gusto la sete ardente che mi consuma... All'ospedale, il dott. Azevedo ammonisce: - Questa ammalata è enuta qui perchè sia controllato il suo digiuno eper null'altro! - Era una pioggia continua di umiliazioni e sacrifici... Cantavo lodi a Gesù e alla Mamma celeste, fingendo di godere la più grande delle gioie... Andavano cosi passando i giorni in questa lotta continua, contraddistinti dall'avvicendarsi delle vigilatrici. - Chi e stato 30, può stare 40. - Il giorno della partenza, il medico (Araujo) ci disse che eravamo libere... - A ottobre avranno a Balasar la mia vsita, non come medico-spia, ma come amico che le stima. - (sente la Madonna dirle): - Figlia mia, mio Figlio aggiunse (al martirio del rivivere la Passione) il tuo digiuno come prova per l'umanità per chiamarla a Sé, al suo divin Cuore, mediante tale meraviglia.

L'anno 1942 segna l'inizio di quel digiuno completo che durerà sino alla morte, prolungandosi per oltre 13 anni.

Precedenti.

Già in anni precedenti però Alexandrina aveva avuto, come abbiamo detto, alcuni periodi di astinenza dai cibi e giornate di vomiti ripetuti. Nel 1935 si nutriva poco: ... Sono molto fiacca, mi sono indebolita molto; Deolinda mi ha già detto che io sto disabituandomi a mangiare. Anche nel maggio del 1936 si alimenta pochissimo: Ho cantato molto in questo mese (mese di Maria) quasi senza alimentarmi; non so donde mi vengano le forze per tanto. Abbiamo visto. poi nel capitolo 7°, n. 12, che alla fine di aprile del 1937 passa attraverso una grave crisi, durante la quale per 17 giorni sta «senza inghiottire nulla, assolutamente nulla. Ricordiamo inoltre che dopo la prima estasi di Passione (3 ottobre 1938) sta per 5 giorni consecutivi senza alimento e in continui vomiti. E alla fine di novembre del 1939 ancora non può alimentarsi per i dolori. La Lettera del 29 novembre 1939 si chiude così: Addio, padre mio. Non mi posso alimentare. Ho tanti dolori! Perdòno! Sono la povera Alexandrina.

Digiuno definitivo.

Per quanto riguarda l'inizio del digiuno definitivo, sentiamo cosa il dott. Azevedo ha dichiarato al Processo Informativo Diocesano. Si alimentava assai male nel 1941; e dal 27 marzo 1942 sino alla fine di giugno dello stesso anno, inghiottiva acqua con un po' di sale e in cui si faceva bollire un filo d'olio. Altre volte le si faceva bere qualche liquido, ma vomitava tutto, salvo che non fosse acqua pura. Si assoggettava a questa mia volontà di bere questi liquidi, ma nel giugno mi disse: - Mi lasci riposare e non mi obblighi a bere nulla, perchè sto meglio senza prendere cosa alcuna. - Le risposi: - Poiché sta meglio così, si faccia la sua volontà. - Negli anni successivi, a volte, in tempo di grande calura, le facevo bere un sorsetto d'acqua, ma se era minerale o se conteneva zucchero, la vomitava immediatamente; se era semplice, non la vomitava, ma restava con dolori. Una cosa trovavo strana: vivendo senza alimentazione dal 1942 al 1955, ebbe ogni mese le mestruazioni, fino a 47 anni di età.» Riportiamo ora due stralci di Lettere del 1942 che mostrano la sofferenza procuratale dal digiuno. ... Io continuo senza alimentarmi; non posso neppure saziare con gusto la sete ardente che mi consuma. Posso bere poco e quasi senza sollievo. Non posso descrivere le nostalgie che ho di alimentazione: desidero mettere in bocca tutto; desidererei alimentarmi con alimenti che mi piacciono e non riesco affatto. Ma sia lodato Gesù: la mia intelligenza è vivissima. Offro tutto il mio martirio per amore a Gesù, per riparare per tanti crimini, per salvargli le anime e per dare luce a coloro che mi tolsero la luce e il conforto sulla Terra (le tolsero il direttore spirituale) Padre mio, continuo senza alimentarmi. Non ho fame, ma sento la necessità, ho delle ansie divoratrici, di mettere in bocca tutto quanto vi è. Se lei sapesse quanto mi costa questa nuova sofferenza! Sia per Gesù e per le anime!...

Necessità di controlli.

Davanti a questo fatto straordinario, che suscita perplessità e che viene considerato una mistificazione da parte di alcuni, è logico che il dott. Azevedo senta il bisogno di fare un controllo e che ne parli anche all'arcivescovo Primate di Braga. Questi esprime il desiderio che sia fatto in una Casa di Salute. Azevedo affida questo compito al dott. Gomes de Araùjo, chiedendogli che controlli due cose: se Alexandrina ha facoltà mentali normali e se vive senza alimentazione. Il dott. Azevedo ne parla anche al prof. dott. Carlo Mberto Lima docente all'Università di Oporto e combinano un consulto, a proposito del quale Alexandrina nell'Autobiografia detta: Per soddisfare il desiderio e la volontà del signor arcivescovo, mi assoggettai ancora una volta ad un nuovo consulto medico, che avvenne il giorno 27 maggio 1943. Quando me lo comunicarono, una nuova sofferenza si impadronì del mio spirito; ma siccome vedevo in tutto solo la volontà santissima di Dio, accettai come sempre per obbedienza, poiché ciò che mi costava di più era il dovermi assoggettare ad un altro esame medico. Quando mi fissarono il giorno in cui sarebbero venuti i medici, chiesi con tutto l'amore alla mia cara Mamma del Cielo di darmi la calma necessaria per sottomettermi a tutto con coraggio e rassegnazione, poiché era per Gesù e per le anime che mi sarei assoggettata a tutto. Il giorno fissato vennero il mio medico curante, signor dott. Manuel Augusto Dias de Azevedo, il signor dott. Enrico Gomes de Araùjo ed il signor dott. Carlo Lima. Quando giunsero presso di me, io ero nella massima serenità e calma. Il Signore aveva udito ed esaudito la mia richiesta. Le prime parole di uno dei medici furono per chiedermi se soffrivo molto e per chi offrivo quelle sofferenze; se soffrivo volontieri e se sarei soddisfatta qualora il Signore mi liberasse da un momento all'altro da quelle stesse sofferenze. Risposi che in realtà soffrivo molto e che soffrivo tutto per amore al Signore e per la conversione dei peccatori. Poi mi domandarono quale era la mia più grande aspirazione e io risposi: - È il Cielo. - Allora mi chiese se ambivo ad essere una santa come santa Teresa, santa Chiara, ecc. e a salire agli onori dell'altare, lasciando, come loro, un grande nome nel mondo. Risposi: - È ciò che meno mi preoccupa. - Volendo togliermi la fiducia in Dio, mi fece la seguente domanda: - Se per salvare i peccatori fosse necessario perdere la sua anima, che cosa farebbe? - Io ho tutta la fiducia che, avendo lo scopo di salvare le altre anime, sarebbe salva anche la mia; ma, se alla fine perdessi la mia, allora no, poiché neppure il Signore sarebbe capace di chiedere una cosa simile. E aggiungo ancora: ho promesso al Signore i miei occhi, che sono quanto ho di più caro nel mio corpo, se fosse necessario, per convertire Hitler, Stalin e tutti gli altri che sono causa della guerra. - E perchè non mangia? - Non mangio perchè non posso: mi sento sazia; non ho bisogno di mangiare, ma sento nostalgia dei cibi. - Poi cominciarono a fare l'esame medico, che sopportai sempre ben disposta. Fu una visita molto rigorosa, ma, nello stesso tempo, usarono delicatezza col mio corpo. Infine, siccome non ero in condizioni di affrontare un viaggio, decisero di far venire a casa nostra due suore perchè si accertassero della veracità del mio digiuno. Quando se ne furono andati, il Signore mi fece sentire che la loro decisione non si sarebbe realizzata: rimasi in attesa di notizie circa le nuove intenzioni dei medici. Il dott. Azevedo dà a p.Pinho il resoconto in una lettera del 31 maggio 1943, in cui si legge, tra l'altro: I medici sono rimasti bene impressionati; ma ultimamente, e contro quanto si era combinato, esigono per un giudizio definitivo che la nostra inferma sia messa in Casa di Salute: affermano essere questo il consiglio di vani colleghi... e che non vogliono compromettere il loro nome...» E continuiamo ora a leggere nell'Autobiografia. Il 4 giugno venne il mio medico curante (Azevedo) con il mio confessore ordinario (p. Alberto Gomes) a comunicarmi la decisione dei medici e a convincere me e la mia famiglia della opportunità che io andassi al «Rifugio di Paralisi Infantile» di Foz do Douro e che vi rimanessi un mese in una camera riservata, affinchè fosse controllato più da vicino tutto quanto avveniva in me. Io risposi immediatamente di no, ma subito mi pentii di quanto avevo detto e, per l'obbedienza dovuta, acconsentu: non volevo disobbedire al signor arcivescovo, nè lasciare in una situazione critica il mio direttore spirituale, il medico curante e tutti coloro che tanto si erano interessati di me. Misi però queste condizioni: poter ricevere Gesù (Eucaristico) tutti i giorni; essere sempre in compagnia di mia sorella; non essere più sottoposta ad alcun esame, poiché andavo per essere osservata e non per essere esaminata. Nei giorni in cui rimasi qui chiesi a Gesù e alla Mamma celeste che mi dessero forze e coraggio per essere io di sostegno ai miei, che erano desolati. Quante volte durante la notte, col cuore oppresso e le lacrime tremolanti negli occhi, chiedevo a Gesù di aiutarmi, poiché mi pareva che le forze mi venissero meno! E mi vedevo senza coraggio, e tanto meno ne avevo da darne agli altri.

Quaranta giorni all'Ospedale, in rigorosa osservazione.

Il 10 giugno 1943 Alexandrina inizia il suo internamento all'ospedale di «Foce del Douro» che durerà non 30 ma 40 giorni, come vedremo: ecco il famoso «40» biblico! Proseguiamo nella lettura dell'Autobiografia. Arrivò il 10 giugno in cui tutto era pronto per il mio viaggio alla "Foce". L'amarezza che si impossessò di me era enorme, ma nello stesso tempo sentivo un coraggio tanto grande che con esso potevo nascondere quanto mi passava nell'anima. Confidavo tanto in Gesù; ero così convinta del suo divino aiuto da pensare persino che, se fosse stato necessario, Gesù avrebbe mandato i suoi angeli ad aiutarmi nell'esilio in cui mi sarei trovata. Quando il medico (Azevedo) giunse presso di me, non ebbe il coraggio di dirmi che bisognava partire, ma io gli dissi: - Andiamo! Chi non parte, non ritorna. - Allora cominciarono i commiati. Solo il Signore sa quanto mi costò questa separazione, poiché tutti i miei vennero ad abbracciarmi e a baciarmi pieni di dolore. Io fissavo solo il Sacro Cuore di Gesù e la cara Mamma del Cielo per chiedere Loro che mi dessero coraggio e forze. Scendendo le scale, sulla barella, dissi loro per rianimarli: - Coraggio! Tutto questo è per Gesù e per le anime.-Non potei dire di più, tale era l'oppressione che sentivo nel mio cuore e sarebbe stato impossibile trattenere le lacrime; e volevo trattenerle, non per me, ma per non essere causa di maggior dolore per i miei. Quando fui posta nell'autolettiga, circondata da più di 100 persone, vidi le lacrime negli occhi di quasi tutti e udii i singhiozzi di mia madre e di altri parenti. È indicibile il mio dolore. Ero ansiosa di partire e di partire in fretta. Il mio cuore pulsava con tanta violenza che pareva staccarmi le costole. In quel momento dissi a Gesù: - Accettate, mio Gesù, tutti i palpiti del mio cuore per amore a Voi e per la salvezza delle anime! - Il viaggio fu difficile, poiché il mio cuore soffriva immensamente e a volte pareva che stesse per soccombere. Guardavo mia sorella e la vedevo molto desolata. Il medico mi diceva che non costava viaggiare con ammalati come me, perchè mi vedeva sempre col sorriso sulle labbra. Ma solo Gesù sapeva l'amarezza del mio cuore e le torture del mio povero corpo! Per le scosse dell'autolettiga (la strada non era ancora asfaltata) sentivo nel cuore grandi dolori, ma ripetevo sempre: - Tutto per amore a Voi, mio Gesù! E che la notte oscura che sento nella mia anima serva per dare luce alle anime! -Nel giungere alle ultime case di Balasar vidi che il signor Sampaio alzò le tendine dell'autolettiga e notai che spuntavano le lacrime negli occhi del medico che era al mio fianco ed esclamò: - Poveretti! - Nell'udire questo gli domandai che cosa c'era. Mi dissero che dai margini della strada alcuni fanciulli lanciavano fiori verso il nostro veicolo. Mi sentii allora tanto commossa per quei bambini che le lacrime forzavano per colarmi sulle guance e a stento potei trattenerle. Arrivati a Matozinhos, il medico alzò la tendina della finestrella dell'autolettiga affinchè guardassi il mare. In quel momento un grande silenzio si impadronì del mio cuore e, nel vedere il movimento continuo delle onde che arrivavano sino alla spiaggia, chiesi a Gesù che anche il mio amore fosse così: senza interruzione e duraturo. Giunti al «Rifugio», il signor dottor Gomes de Araùjo non volle che l'autolettiga arrivasse sino alla porta, perciò disse agli addetti all'autolettiga che tirassero fuori la barella e mi portassero così lungo la strada, dopo avermi coperto il viso affinchè nessuno mi vedesse. Nello stesso momento il mio cuore divenne più triste, poiché presentiva già cosa sarebbero stati per me quei lunghi 30 giorni che avrei trascorso in quella Casa. Mentre mi trasportavano col viso coperto, mi pareva di essere in una cassa. La mia tristezza cresceva e domandavo a me stessa: che delitto commisi io? La salita delle scale al «Rifugio» fu un martirio, perché mi portarono con la testa in giù. Mi scoprirono il volto solo nella camera e allora mi vidi attorniata dal dott. Araùjo e da alcune signore che sarebbero diventate le mie vigilatrici fino a che sarei rimasta là. Mi misero nel letto che mi era stato destinato. Mandarono mia sorella in un'altra camera, contrariamente a quanto avevo richiesto, poiché questo era uno dei più grandi sacrifici che potevamo fare, sia l'una che l'altra. Come potevo io stare senza di lei, che sapeva come muovermi quando era necessario ed aiutarmi con le sue affettuose parole a sopportare questo doloroso calvario? Mi avevano appena adagiata sul letto quandò Deolinda si presentò alla porta, portando la valigia in cui avevamo la nostra biancheria. Il medico dott. Maùjo, nel vedere mia sorella, urlò: - Fuori quella valigia! - Fu spina sopra spina. Poi cominciò a dare ordini: - Le vigilatrici, le vigilatrici! L'ammalata può dire ciò che vuole, ma le signore non hanno il permesso di interrogarla. - Dati tutti questi ordini, il medico si ritirò: rimasero il mio medico curante (Azevedo) e due signore, che sarebbero state li in permanenza per vigilare tutti i miei movimenti. Già sull'imbrunire, quando il signor dott. Dias de Azevedo stava per andarsene, sebbene per ritornare (il giorno dopo), non riuscii più a trattenere le lacrime che mi riempivano gli occhi. Il mio medico ebbe ancora questa finezza, questo rispetto per il mio dolore, più che rispetto, tenerezza: - Coraggio, domani tornerò qui! - Piansi con profondo dispiacere, ma subito offersi quelle lacrime tanto amare al mio caro Gesù. Nel vedermi tanto desolata, alla fine permisero che per quella notte mia sorella rimanesse presso di me, insieme ad una delle signore infermiere, affinchè questa imparasse il modo con cui mia sorella è solita muovermi; ma il medico precisò subito: - Solo per questa notte, perché domani non resterà! - Il giorno seguente, venerdì, cominciò per me il vero calvario in quella Casa. Allora dell'estasi, come avviene in tutti i venerdì, mia sorella mi venne vicino ed erano pure presenti il mio medico curante, il Signor Sampaio e una infermiera. Agli osservatori non sfuggi nulla, neppure i minimi particolari, che furono poi divulgati e commentati. Particolari come questi: che il signor Sampaio aveva tirato fuori dalla tasca l'orologio, che mia sorella si era inginocchiata ai miei piedi per udire le parole dell'estasi, che una infermiera aveva pianto, ecc. Il signor dott. Azevedo, come sempre, scrisse le parole dell'estasi da consegnare ai medici. (In segnito) Deolinda, che aveva ordine di stare lontana dalla mia camera, era amareggiata e invocava: - Non potrò vedere mia sorella nemmeno dalla porta della camera? Il vederci può forse alimentarla? -E, chinata sul mio letto, piangeva inconsolabile. Fu allora che io le dissi: - Non affliggerti! Il Signore sarà con noi. -La vigilatrice che aveva pianto durante l'estasi le disse toccandola su una spalla: - Non pianga: il signor dottor Araùjo è un uomo di molta carità.-Bastò questo perché quella vigilatrice non potesse mai più avvicinarsi a me, se non negli ultimi giorni quando vi erano già le prove della verità, e anche così, solo accompagnata da alcune persone. Per questo e per molte altre cose, una vigilatrice fu il mio aguzzino durante i miei giorni alla «Foce». Ella non immagi na neppure quanto mi fece soffrire: Dio, il Signore la perdoni! In quella notte cominciai ad avere una delle tremende crisi di vomito che, se mi fanno sempre soffrire tanto e tanto mi affliggono, ancora di più li, dove non avevo chi mi sostenesse, se non qualche volta. Sabato venne di nuovo il signor dott. Gomes de Araùjo per vedere come stavo e sapere quanto era avvenuto. La mia prostrazione era così grande che non mi accorsi quando bussò alla porta, sempre chiusa a chiave. Lo udii solo quando, vicino al mio letto, sussurrava all'infermiera: - È spacciata, è spacciata! - Fu allora che aprii gli occhi e gli dissi: - Signor dottore, anche a casa avevo di queste crisi. - La sua risposta, molto pronta e imperiosa, fu: - Signorina, non pensi di essere venuta qui per digiunare! -Capii dove voleva arrivare e mi sentii profondamente ferita. Il medico (Araujo), quando seppe ciò che era avvenuto il venerdì, volle gli scritti dell'estasi e fu allora che disse urlando: - Sembra impossibile che il dott. Azevedo, ragazzo tanto intelligente, si lasci sedurre da queste cose. Questo deve finire! Intanto scompaiano tutti gli orologi, affinchè ella ignori le ore. - Come se il Signore avesse bisogno di orologi! Vedendomi in quello stato, voleva intervenire con medicine, ma io non consentii nè lo consentirei. Quante volte le vigilatrici mi si avvicinarono, convinte che ero morta! Furono 5 giorni di continua agonia, più dell'anima che del corpo, poiché in quelle crisi non permisero che mia sorella venisse presso di me; e io in casa avevo bisogno di due persone che mi aiutassero! Tutti erano persuasi che quella crisi fosse dovuta a mancanza di alimentazione, nel vedermi completamente isolata e senza nessuno che mi potesse portare qualche alimento, e che avrei sentito la necessità di chiederlo o sarei morta. Come si ingannavano! Il mio alimento veniva dall'Ostia benedetta della mia Comunione di ogni mattina. Fu durante quella crisi che il mio medico curante (Azevedo) ritornò a vedermi e fu informato da mia sorella, là fuori dalla mia prigione; presso il mio letto fu avvertito dalla vigilatrice che io avevo bisogno di medicine. E io, che ancora non mi ero accorta del suo arrivo, aprii gli occhi verso di lui e udii che rispondeva alla stessa: - Questa malata è venuta qui perché sia controllato il suo digiuno e per nient'altro! Credo che il signor dott. Araùjo rispetterà le condizioni. Non permetto che le si facciano iniezioni o altro medicamento, a meno che ella lo chieda. E loro, signore vigilatrici, vedranno che, passata questa crisi, le occhiaie spariranno, tornerà il colorito ed il polso tornerà ad essere normale; non dico proprio al suo normale, per causa forse dell' aria marina. Ciò che assicuro è una cosa: morirà lei, signora, morirò io, ma Mexandrina non morirà in questo Rifugio»! -Seduto vicino a me, mi diede un po' di conforto: ne avevo bisogno! Poiché il Signore permise così e giudicò che era bene, passati 5 giorni, i vomiti cessarono completamente, ritornò il colorito normale sul volto e insieme la luminosità degli occhi. Durante la successiva visita del mio medico curante, che veniva di frequente a vedermi, la vigilatrice usci con questa frase: - Guardi, signor dottore, guardi quella faccia! -Egli, sempre molto delicato ma con fermezza, rispose: - Sono state le cotolette che ha mangiato e le iniezioni che ha avuto! -Gesù volle ancora una volta mostrare il suo potere in questa sua umile creatura. Tutte le signore vigilatrici eseguirono scrupolosamente gli ordini del medico (Araujo), in quanto non mi abbandonarono un istante. La porta della mia camera si apriva solo per fare entrare i medici e le vigilatrici. Nonostante la mia trasformazione, nè il medico (Araujo) nè le vigilatrici volevano convincersi che fosse possibile che io continuassi a vivere senza alimentarmi. Infatti dagli argomenti che usavano per impaurirmi, passavano improvvisamente a frasi che mostravano tenerezza ed interesse per la mia persona. Nei discorsi che tenevano tra di loro udii dire che il mio Caso era dovuto a isterismo o a qualche altro fenomeno che non sapevano spiegare. Un giorno in cui venne a trovarmi il signor dott. Azevedo gli dissi ciò che c'era nella mia - Per essere trattata come isterica, non ho bisogno di rimanere qui! - Ma lui mi rispose che avessi coraggio e fiducia. Così feci per compiere in tutto la volontà santissima di Dio. Il signor dott. Gomes de Araùjo veniva a vedermi sempre due o tre volte al giorno e sempre in ore diverse, per vedere, penso io, se riusciva a scoprire qualcosa. E qualche volta entrò in camera mia già di notte, quando vi si trovava la vigilatrice che da qualcuno fu definita «cardinale diavolo». Anche se vivessi sino alla fine del mondo, non potrei mai dimenticare l'impressione che provavo quando il medico (Araujo) apriva e richiudeva la porta, perché stavo sempre ad aspettare ciò che avrebbe detto. Sentivo una impressione tanto grande che il mio cuore e la mia anima diventavano ancora più tristi. E quante volte dicevo e ripetevo a Gesù: - Questa mia notte serva a dar luce a lui, a coloro che mi stanno attorno e a tutte le anime che si trovano nelle tenebre! - Il dott. Maùjo sottopone Alexandrina a numerosi interrogatorii e le fa molti discorsi tentando di convincerla che quanto avviene in lei non è voluto da Dio. Le fa dei ragionamenti apparentemente logici, ma di una logica meschinamente umana. Continuiamo a leggere nell'Autobiografia. Nelle conversazioni e ncgli interrogatorii che mi fece varie volte il signor dott. Araùjo, impiegò tutti gli argomenti possibili per convincermi ad alimentarmi e per farmi sentire che non dovevo fare così perché Dio non era contento: volle persino portarmi agli scrupoli. Inoltre la vigilatrice tentò molte volte di prendermi dal lato del cuore. In una delle volte in cui (Araujo) mi parlò voleva persino servì di vedere se riusciva a togliermi la fede. Si quanti argomenti aveva a sua disposizione e, con interrogatorii interminabili e torturanti, tentò di portarmi allo scoraggiamento, persuaso che tutto quanto avveniva in me fosse dovuto ad influenza umana e non provenisse da Dio. Se ogni volta che venivo interrogata da lui avevo l'impressione di trovarmi davanti un lupo con pelle di agnello, in quel giorno fu ancora peggio: mi pareva di vedere in lui proprio Satana che, con le sue arti, coi suoi sorrisi maligni volesse strapparmi la fede e convincermi che tutto era una illusione. Mi diceva: - Si convinca, signorina, che Dio non vuole che lei soffra. Se vuole salvare gli altri, li salvi lui, se èvero che ha potere per questo! Se è vero che Dio ricompensa coloro che soffrono, per lei non ha ormai più ricompensa adeguata da darle per quanto ha sofferto. - Ma, mio Dio, io so che Voi siete infinito, infinito nella potenza, infinito nei vostri premii. Se fosse come dice lui, per chi soffrirei io? Egli accompagnava le sue parole con lo sguardo malizioso del demonio, così mi pareva. Io allora gli risposi: - Sono tanto grandi, tanto grandi le cose del Signore! E noi siamo tanto piccoli, tanto piccoli, almeno io! -Rimase interdetto; poi, indignato, disse: - Ha ragione, ma io sono una persona un po' più grande! - E se ne uscì. Quanto era lontano, il medico, dal conoscere la legge di amore delle anime! Se egli sapesse il valore di un'anima allora vedrebbe che nulla di tutto quanto facciamo per saIvarle è di troppo. Era una pioggia continua di umiliazioni e sacrifici. Oh, se io sapessi soffrire bene, quanto avrei da offrire a Gesù! Sorgevano sempre cose nuove che mi umiliavano e mi costavano sacrificio. Avevo ai piedi del letto una fotografia della piccola Giacinta che mi avevano mandata là. La guardavo con amore e allora, senza più timore che le vigilatrici lo riferissero al medico, dicevo: - Cara Giacinta, tu, pur tanto piccola, hai provato quanto costa questo. Aiutami, là dal Cielo dove sei! - Solo l'aiuto del Cielo, solo le preghiere delle anime buone potevano essere la mia forza per salire tanto doloroso calvario e sopportare il peso di così pesantissima croce. Ero interrogata dal signor dott. Gomes de Araùjo tutte le volte che veniva presso di me. Ripeteva di frequente le stesse domande e tutte le volte mi lasciava spaventatissima, dicendo quasi sempre: - Dobbiamo parlarci a lungo. - Appena lo vedevo uscire dalla mia camera, respiravo profondamente e dicevo a me stessa: grazie a Dio, che ormai sono libera da te! Ma subito il pensiero che sarebbe tornato presto mi lasciava una sofferenza molto amara. Un giorno, seduto alla mia destra, cercò tutti i mezzi per convincermi che tutto quanto avviene in me è mia illusione. Cominciò allora a girare attorno molto alla larga con discorsi di medicina, parlando di un suo professore e di un Collegio di Oporto dove egli aveva consumato molte ore della notte in una sua ricerca: non aveva dormito, aveva scritto molte pagine e, convinto di aver centrato l'argomento col suo studio, andò incontro al professore per esporgli il risultato del suo studio. Il professore gli diceva: - Sei sicuro di quello che dici? - Egli affermava più volte di si per questa e per quella ragione. Il discorso andava già per le lunghe e io lo fissavo come se nulla comprendessi e dicevo tra me: vai tanto lontano per venire a cadere tanto vicino! Intanto egli continuava dicendo: - Io ero convinto di aver fatto un bello studio. Il professore mi lasciò dire tutto e poi mi disse: "Non vedi che ti sei ingannato, che non può essere giusto nulla di questo, per questa e per quella ragione?" Io rimasi di stucco: mio Dio, tante ore perdute! Tante ore di illusioni! Tutto è caduto a terra! - Io, che già da molto tempo avevo capito dòve voleva arrivare, sorrisi e dissi: - Non cade, signor dottore! Mi guida un direttore molto santo e molto saggio e che ha studiato il mio Caso per alcuni anni. E se l'opera è di Dio, non vi ènulla che la butti a terra. - Egli, un poco imbarazzato, mi disse: - Ah, no! - ngendo con tali parole che non fosse questo ciò che voleva dire. Data la mia risposta, se ne andò in fretta, ed era ora! Ah, mio Gesù, solo con Voi potevo sfogarmi, solo per Voi erano le mie lacrime che cercavo di nascondere agli sguardi delle vigilatrici. Cantavo lodi a Gesù e alla Mamma celeste, fingendo di godere la più grande delle gioie. Cantavo con il massimo degli entusiasmi. Ma, dentro di me e persino ai miei propri occhi, pareva che non vi fosse nè sole nè giorno. Alcune volte durante la notte mi veniva in mente: cosa starà facendo ora mia sorella? Starà piangendo? E, pensando che stava soffrendo tanto per causa mia, una volta non potei trattenere le lacrime: piansi, piansi. Temevo solo che Gesù rimanesse triste per le mie lacrime. Ma Lui sapeva bene che io volevo e accettavo tutto per amore a Lui, con il desiderio immenso di dargli tutte le anime. E Gli offersi le mie lacrime come atti d'amore per i tabernacoli. Quanta più amarezza, tanto più amore, nevvero, mio Gesù? Accettate! Durante quel lungo e tormentoso esilio, sua madre va a trovarla due volte: precisamente il 16° e il 30° giorno. Questo avrebbe dovuto essere l'ultimo, secondo i primi accordi,invece vedremo che si aggiungeranno altri 10 giorni. Riguardo a queste visite, Mexandrina detta nell'Autobiografia quanto segue: Avevo tanta nostalgia di lei! Poté stare così poco tempo vicino a me, e sempre sotto gli sguardi indagatori delle spie. Ella piangeva e io fingevo di non aver cuore: sorridevo e scherzavo con lei; la accarezzavo e col mio sorriso ingannatore nascondevo l'amarezza che avevo nell'anima e trattenevo le lacrime che volevano scorrermi sulle guance. Le facevo animo mentre intimamente mi sfogavo tutta sola col mio Gesù. Era la mia croce, e chi non doveva portarla per amore a Colui che mori per me? Scorre lentamente il tempo dell'esilio, sempre in mezzo a grovigli di spine sopportati e offerti con il massimo amore. Andavano così passando i giorni in questa lotta continua, giorni contraddistinti dall'avvicendarsi delle signore vigilatrici che andavano e venivano secondo la volontà del medico (Araujo): con alcune soffrii immensamente, perché arrivarono ad oltrepassare i limiti dei loro diritti e dei doveri che dovevano compiere. Si approssimarono così i giorni in cui il medico, convinto ormai della verità, aveva detto che ci avrebbe messe più a nostro agio permettendo che mia sorella trascorresse un po' più di tempo presso di me, presente sempre la vigilatrice che disimpegnava la sua missione; concesse anche, il 29° giorno, una visita, per quanto rapida, alle suore francescane del «Rifugio». Pensavamo anche di comunicare ai miei il giorno del ritorno, ma, inaspettatamente, sorse un contrattempo. Una delle vigilatrici aveva informato del mio Caso un medico (dott. Alvaro che più avanti sara nominato da Alexandrina stessa) che non conosceva nè me nè il mio Caso; questi sollevò nuovi dubbi: cominciò ad affermare che non poteva essere, che facilmente le vigilatrici si erano lasciate ingannare e che avrebbe creduto solo mandando una vigilatrice di sua fiducia. Il signor dott. Gomes de Araùjo, un po' indignato per la incredulità sul suo operato, lo sfidò a mandare allora una persona di sua fiducia: venne scelta una sorella del dott. Alvaro. Quando noi pensavamo di vedere mitigato il nostro dolore, fu allora che ci venne chiesta una nuova prova più triste e dolorosa! Il dott. Araùjo cercò di convincerci che era conveniente passare lì ancora 10 giorni, sebbene egli fosse convintissimo della verità; contro la volontà di mia sorella, egli insistette che era necessario rimanere per convincere l'altro medico. lo gli risposi: - Chi è stato 30, può stare 40. - Rimase deciso così. Veramente il dott. Alvaro non esigeva tanto tempo: per convincersi gli bastava che io rimanessi solo 48 ore senza mangiare e senza evacuare; non esigeva di più. Fu lo stesso dott. Araùjo che, delicatamente, per onore del suo nome, invitò la signora assistente a rimanere un giorno in più e poi ancora un altro, e un altro. Anche dopo di avere compiuta la sua missione, quella signora ritornò varie volte a farmi visita, convinta infine della verità. Questo ultimo tempo fu un vero calvario: io offrivo al Signore e alla Mamma celeste questo grande sacrificio. Dura prova, mio Dio! Il dott. Araùjo, senza dirmi ciò che avrebbe fatto, prese la borsa di gomma che tenevo sullo stomaco e il fiasco di acqua che le vigilatrici avevano per bagnare il fazzoletto che tenevo sulla fronte e vi infuse in entrambe ciò che volle affinchè io, che ignoravo il fatto, se avessi succhiato il fazzoletto o bevuto dalla borsa, come l'altro medico (Alvaro) affermava, avrei avuto dei disturbi che loro sapevano; ordinò poi alle vigilatrici di non cambiarmi il ghiaccio della borsa, anche se io lo chiedessi. Io stetti agli ordini anche se alle volte la vigilatrice tentò di cambiare il ghiaccio. Rispondevo: - Mi tolga la borsa solo per lasciarla rinfrescare un po'; il signor dottore ha comandato e io obbedisco. -Si ritornò al rigore di prima, anzi peggiore: si proibì persino che mi si parlasse di Gesù in qualsiasi modo, pensando con questo di poter strappare ciò che sta dentro di noi! - Non consento - aveva detto il dottore - che chiami sua sorella se non una volta per notte! - La vigilatrice molte volte durante la notte, come per tentarmi con sollecitudine bugiarda (non voglio dire che fosse falsa: era solo l'impressione che mi lasciava), mi diceva: - Piccola santa, mia piccola santa, sempre nella stessa posizione! Io chiamo, chiamo sua sorella! - Grazie, mia signora, ma non voglio: il signor dottore ha ordinato che mia sorella venga una sola volta! - E quando davvero mia sorella bussava, quell'unica volta concessa dal dottore, per entrare nella camera a cambiarmi di posizione nel letto, la vigilatrice accendeva la luce, apriva la porta e si metteva a fianco di mia sorella. Appena questa era uscita, fingendo compassione e sollecitudine per il freddo che io avevo potuto buscarmi, mi scopriva completamente per vedere se Deolinda avesse lasciato qualcosa sotto le coperte. Io comprendevo benissimo e alzavo le braccia sopra i cuscini, affinchè potesse ispezionare meglio, fingendo di non comprendere. - Solo per Voi, Gesù! - E non mancarono le seduzioni per farmi mangiare qualcosa delle loro refezioni. Quando mi allungavano i bocconcini appetitosi senza parlare, mi limitavo a sorridere loro. E quando offrivano il cibo parlando, ringraziavo: - Molte grazie! - Ma sempre sorridendo, fingendo di non comprendere la loro malizia. Quante volte mi furono tolti gli indumenti per esaminarli! Quando sentivo di più la solitudine, principalmente di notte, mi pareva che il tempo avesse la durata dell'eternità. Sentivo come se il mio cuore fosse un albero che si radicasse con le sue vene lungo il suolo e le pareti: la furia di una grande tempesta le strappava; mi restava tutto a terra e tutti calpestavano tutto. La furia della tempesta era così violenta che alla fine sentivo come volesse strapparmi quelle vene e tutto cadesse per terra. Dicendo questo, sento di non dire nulla in confronto di quanto passai in quei giorni. Tutto mi si ripresenta paurosamente alla mia memoria. Che tormento! Solo l'amore a Gesù e la follia per le anime possono vincere. Sentendo avvicinarsi il medico, dicevo tra me: arriva l'aguzzino a visitare la povera carcerata per amore a Gesù e alle anime. Non offesi nessuno se non Voi, mio Gesù; ma gli uomini vogliono, senza pensarlo, che in questo modo io paghi così le mie ingratitudini. Vedendo mia sorella desolata affacciarsi di tanto in tanto alla parte superiore della porta per domandarmi se stavo peggio, cercavo di incoraggiarla. Poveretta! Aveva udito dalle conversazioni del medico che il mio avvelenamento era sicuro perché non evacuavo. Poveri loro! Gesù sa fare le cose meglio degli uomini! Finalmente arriva il tanto sospirato momento di lasciare quel carcere! La vigilia della partenza fu giornata di visite: passarono vicino a me tutti i bambini del «Rifugio» ai quali distribuii caramelle e con i quali pregai per tutti quelli della Casa. Mia sorella non pareva più la stessa: tutti lo notarono. Vennero a farmi visita circa 1500 persone: dovettero intervenire i poliziotti per mantenere l'ordine. Considerai una grande grazia che uno dei poliziotti incaricati di mantenere l'ordine si limitasse a mettersi al mio fianco per tutto il tempo, accontentandosi di dire di tanto in tanto alla folla: - Avanti! Passate avanti! - Quale impressione, mio Dio, quella confusione di gente! Non valsero le suppliche di mia sorella perché finisse tutto quello. A nulla valsero i poliziotti. Il medico stesso (Araujo) dovette affacciarsi alla finestra per dire che si doveva farla finita, che non era possibile prolungare quella confusione senza farmi morire. Quanta gente aveva pensato che quella ammalata sarebbe morta! Io, in effetti, rimasi umiliata, depressa, stanchissima, con nausea di me stessa per i baci ricevuti, le lacrime ecc. che mi lasciavano sul volto, in segno di una stima che non merito e non voglio. La prima cosa che feci fu di chiedere a mia sorella che mi lavasse. Il giorno della partenza, al mattino, il medico (Araujo), che non aveva quasi dormito affatto per la responsabilità, giunse al «Rifugio» dove molta gente aspettava per potermi vedere. Dopo di essere rimasto un po' con me, permise l'entrata di alcune persone. Fu allora che ci disse che eravamo libere e che l'osservazione era terminata! Concesse a mia sorella di mangiare presso di me e disse: - Ad ottobre avranno a Balasar la mia visita, non come medico-spia, ma come amico che le stima. - Baciai, riconoscente, la mano del signor dottor Araùjo e lo ringraziai, riconoscente per tutto l'interessamento che aveva avuto per me. Feci questo con tutta la sincerità, poiché sapevo molto bene che, sebbene fosse stato severo con me, aveva dimostrato però tutta la serietà con la quale doveva essere preso tutto il mio Caso. In quel pomeriggio del 20 luglio vennero a salutarmi le suore e le vigilatrici Tutte le vigilatrici mi offrirono doni. Alcune vennero ad assistere alla mia partenza. Ero già sistemata in autolettiga quando una di loro mi spruzzò addosso una boccetta di profumo. Avevo con me un mazzo di garofani, offerti da una signora alcune ore prima che partissi. Durante il viaggio mi furono offerti altri due mazzi di fiori. Li ricevetti per delicatezza, ben lontana dal prevedere le conseguenze: poco dopo sarebbero stati causa di maggiori sofferenze per me. Penso che le persone me li avevano offerti perché sapevano quanto li apprezzavo e li amavo. Solo Gesù sa quanto io ami i fiori, perché amo il loro Creatore! Quante volte i cari fiori mi servivano di meditazione! Vedevo in essi la potenza, la bontà e l'amore di Gesù. Nè il profumo, nè i fiori, nè la moltitudine di gente che attorniava l'autolettiga lungo il viaggio furono per me motivo della più piccola vanità. Quando ci fermavamo per farmi riposare e vedevo tanta gente avvicinarsi a me con tante esclamazioni, dicevo subito al mio medico curante (Azevedo) che stava al mio fianco: - Andiamo, andiamo, signor dottore! - Mle volte pensavo di essere indelicata, ma egli aveva molta pazienza con me! Durante il viaggio vissi più dentro in me che fuori: il mare e tutto quanto si presentava ai miei occhi mi invitavano al silenzio, alla vita intima con Dio. Non avevo di che essere vanitosa: tutto questo era per me motivo per umiliarmi e farmi piccola fino a sparire. Cosa mai sarebbe di me, se fossi giudicata dal mondo! Buttarono tanta malizia dove non ce n'era affatto. Perdonateli, Gesù! Non conoscono le vostre cose. Mi commossi per le lacrime delle vigilatrici e delle altre persone. Fu necessario telefonare alla polizia per trattenere la moltitudine. E uscii da quella benedetta Casa, lieta di aver compiuto il mio dovere e di ritornare tra i miei e nella mia cameretta, di cui avevo tanta nostalgia. Quando arrivai nella mia cameretta, mi pareva che non fosse vero! Ci furono delle lacrime, ma questa volta molto diverse: erano di gioia. Posta nel mio letto, per molto tempo non potei sopportare che mi toccassero: mi sfuggivano grandi gemiti per i dolori quanto mai forti. Fu l'effetto del viaggio. Ora io dico: per chi mi sacrificai così? Sarà anche questo per vanità? O mondo, o povero mondo! Vanità, ma per che cosa? Cosa siamo noi, senza Dio? Chi sarebbe capace di soffrire tanto per una grandezza e una vanità del mondo? Quaranta giorni passati alla «Foce»! Solo Gesù sa ciò che passai là! Quante spine a ferirmi, quante frecce confitte nel mio cuore! Quante umiliazioni, quante umiliazioni! Aveva ragione il mio medico curante quando, durante il viaggio di andata, mentre mi collocava un fazzoletto bagnato sulla fronte, mi diceva: - Ha qualche capello bianco, ma al suo ritorno ne avrà molti di più! - E infatti così avvenne. Egli già prevedeva quanto mi aspettava. Ma è tanto bello sopportare tutto per amore a Gesù! Come conclusione di questo paragrafo, ecco un brano del dialogo che si svolge durante l'estasi del 7 agosto 1943, dove appare sempre più grande l'umiltà di Mexandrina, che attribuisce a Gesù tutto quanto di buono e di generoso è in lei: - Dì, figliolina, dì, amore, dì al tuo padre spirituale, dì al tuo medico che per tutte le loro umiliazioni saranno esaltati. Gesù è loro grato per il trionfo, per il progresso della sua Causa. Gli uomini tentarono di buttarla a terra; Gesù vigilò ed essi (p. Pinho e Azevedo) cooperarono. Tutto quanto è di Gesù non cade: sta saldo in mezzo a tutte le tempeste, brilla, trionfa. Regna Gesù con la sua innamorata. Trionfa Gesù con la sua amata e coi suoi più cari. - O mio Gesù, molte grazie! Trionfate e regnate Voi per la vostra gloria, per la salvezza delle anime. Io voglio essere piccola agli occhi del mondo, ma grande nell'amore, grande nel potere di salvarvi le anime, grande in questo potere che è il vostro, in questo amore che solo a Voi appartiene. -

Referti medici.

Pare utile riportare anzitutto alcuni stralci del dettagliato Referto del dott. Araùjo, relativo alla degenza di Alexandrina nell'Ospedale della «Foce»: vi è tratteggiato un ritratto fedelissimo e bellissimo dell'ammalata, molto espressivo. «Esame psicologico. Appare subito perfetta, normale intellettualmente, affettivamente e volitivamente, ma si rivela portatrice di un gruppo di idee fisse che vive e sente intensamente e sinceramente, senza ombra di mistificazione o di impostura: idee che determinano la sua astinenza... Il medico (Azevedo), la famiglia e i suoi intimi informano che questa astinenza dura già da 13 mesi. La sua espressione è viva e perfetta, dolce, buona, cattivante; l'atteggiamento è sincero, senza pretese, molto alla mano. Nessun ascetismo, nessuna mellifluità, non voce timida, svenevole, ritmica, non esaltata, nè consigliera o catechetica; parla in modo naturale, intelligente, persino acuto; risponde senza esitazione e convinta, sempre in armonia con la sua struttura psichica e la struttura solida di giudizii ben costruiti e ben delineati in se stessi e nel modo di presentarli: sempre con aria di bontà spontanea che il clima mistico che da tanto la attornia e che non pare abbia provocato, non ha modificato.» Circa il digiuno, dopo aver descritto il rigore dell'assistenza fatta durante quei 40 giorni, dice quanto segue: «Furono inutili i nostri primi sforzi ~' tutti gli altri fatti in seguito per indurre l'ammalata ad alimentarsi introducendo nel suo subcosciente consigli attraverso la persuasione ed un lavoro di rieducazione. D'altra parte, non tentammo mai l'alimentazione forzata, perché la giudicammo inopportuna e controindicata. Così passarono i giorni uno dopo l'altro, e l'ammalata conversava, cantava ogni tanto lodi religiose, in una conformità assoluta con la sua decadenza fisica, ma psichicamente forte e perfetta. È assolutamente sicuro che, durante i 40 giorni di degenza nel «Rifugio», Alexandrina non mangiò nè bevve, non urinò nè defecò; e questa circostanza ci induce a credere che questi fenomeni rimontano a tempi anteriori. Non possiamo dubitarlo. I 13 mesi, secondo quanto ci informarono? Non sappiamo.» Tale Referto termina affermando che Vi sono in questo Caso singolare tali particolari che, per la loro importanza fondamentale di ordine biologico, quale la durata dell'astinenza da solidi e da liquidi e l'anuria, ci rendono perplessi, aspettando che una spiegazione faccia la necessaria luce.» È interessante riportare qui anche il Referto steso congiuntamente dal prof. dott. Carlo Mberto Lima e dal dott. Azevedo e firmato il 26 luglio 1943 ad Oporto. «Noi sottoscritti, dott. Carlo Alberto Lima, professore in pensione della Facoltà di Medicina di Oporto ed Emanuele Augusto Dias de Azevedo, dottore in medicina della stessa Facoltà... attestiamo che la degente, dal 10 giugno al 20 luglio corrente anno, rimase internata nel «Rifugio della Paralisi Infantile» di Foce del Douro, sotto la direzione del dott. Gomes de Araùjo e sotto la vigilanza fatta, di giorno e di notte, da persone coscienziose e desiderose di scoprire la verità, e che fu constatato che la sua astinenza da solidi e da liquidi fu assoluta durante il suo ricovero. Attestiamo pure che conservò il suo peso, la temperatura, la respirazione, le pressioni, il polso, il sangue, le sue facoltà mentali sensibilmente normali, costanti e lucide; e che non ebbe durante questi 40 giorni nessuna evacuazione di feci nè la minima escrezione di urina. L'esame del sangue, fatto tre settimane dopo l'internamento di cui sopra, è allegato a questo Referto e da esso si vede che, considerata la detta astinenza da solidi e da liquidi, la scienza non può spiegare per via naturale ciò che risultò in quell'esame; così come, considerate le leggi della fisiologia e della biochimica, non si può spiegare la sopravvivenza di questa ammalata, per motivo dì questa astinenza assoluta durante i 40 giorni di degenza; si deve mettere in evidenza che l'ammalata, durante quel tempo, rispose giornalmente a molti interrogatorii e sostenne moltissime conversazioni, mostrando un'ottima disposizione e la migliore lucidità di spirito. Riguardo ai fenomeni osservati nei venerdì (le estasi), più o meno attorno alle 17 ore legali, pensiamo che appartengono alla mistica, la quale dovrà pronunciarsi sui detti fenomeni. Per la verità abbiamo redatto questo Attestato, che firmiamo».

Altri medici si interessano al Caso.

Dopo più di due anni di digiuno, non c'è da stupirsi se vani medici si interessano al Caso. Per es. nel Diario del 25 ottobre 1944 leggiamo: Si è destata ora la curiosità dei medici: che tormento per me! O anime, o anime, quanto è necessario soffrire per salvarvi! O Gesù, Gesù, quanto costa la conquista del vostro amore!... Cominciarono le visite. Da Gesù ricevetti la forza per sacrifici tanto grandi. Erano le 2 e mezza del porùenggio quando entrarono nella mia camera 5 uomini. Ebbi subito l'intuizione che qualcuno di loro era medico. Cominciarono ad interrogarmi; non so il perché, i miei occhi si fissavano di più su di uno. Seppi poi che costui era proprio medico. Siccome avevo l'impressione di stare a parlare con un medico, rispondevo a tutto e cercavo di spiegarmi bene a riguardo della mia malattia. Non mi venne meno la serenità. O Gesù, solo Voi sapete quanto mi costa tutto questo. Quando finirà, mio Dio? Certamente solo con la mia morte! Rispondevo con fermezza perché la verità ha un solo cammino. Arrivò il momento in cui mi parlarono della alimentazione. Duro colpo! Potessi almeno fare sì che nessuno lo sapesse! - Mlora, non mangia nulla, nulla? - Io non sapevo se stavo parlando con persone religiose. Ma, senza rispetto umano, risposi: - Faccio la Comunione tutti i giorni. -Un silenzio profondo di alcuni istanti si incrociò fra tutti: non un gesto, non un sorriso. Poco dopo, si congedarono molto delicatamente e rispettosamente. O Gesù, o Mamma celeste, o divino Spirito Santo, date la vostra santa luce a queste anime! Fate che siano soltanto vostre e seguano i vostri cammini! Fate che le mie umiliazioni e i miei sacrifici servano per la salvezza di tutti. O Gesù, voglio vivere per amarvi e per la salvezza delle anime.

Crescono le nostalgie di alimentazione.

Nel novembre dello stesso anno 1944, detta nel Diario: Al vedere i miei con dei cibi che mi piacciono tanto, sentii nostalgie quasi insopportabili di alimentarmi con cose gustose per me. Tacqui, non dissi nulla: offersi a Gesù il mio sacrificio e le mie nostalgie per riparare per quelli che hanno soltanto nostalgie di peccato e si alimentano con cose che offendono Gesù. E tormento ancora più grande, se è possibile, è dato dalla sete, come leggiamo nel Diario del 21 novembre dello stesso anno: Vengono dal mio interno onde di fuoco, di fuoco ardente; sento persino bruciarmi la lingua.. Quante volte chiedo che mi portino alle labbra un poco di acqua, per vedere se ottengo di saziare la mia sete! Impossibile. Le sue arsure continuano; e quante volte ordino di portare via l'acqua, non potendola inghiottire! Oh, quanto soffrono i dannati all'inferno!... Anche nell'anno successivo sono frequenti gli accenni a questa tortura, ma sempre Alexandrina conclude con la sua offerta generosa a Gesù: Talvolta le nostalgie degli alimenti e delle bevande sono nostalgie da morire: è dolore che distrugge il cuore. Io, senza far capire ciò che sento, offro a Gesù il mio sacrificio e vado mormorando tra me: - Comperate con esso, Gesù, comperate con esso le anime. Potrà questo mio dolore essere utile per loro? Vedete, Gesù: è dolore che solo il vostro divino amore può vincere. -Ogni anno Alexandrina ricorda, come abbiamo detto, il 27 marzo, anniversario dell'ultima crocifissione con movimenti e inizio del suo digiuno totale e definitivo: notiamo che sempre associa questi due fatti. Per esempio, nel Diario del 28 marzo 1947 si legge: ... Ricorse il 5° anniversario del giorno in cui Gesù cessò di manifestare in me la sua santa crocifissione e io cessai di alimentarmi. Voglio solo ciò che Gesù vuole, ma oh, che pena e che nostalgie! Sentii per tre giorni come se tutto il mio essere avesse bocche per mangiare: desideravo tutto. Sentivo che tutti mangiavano l'alimento che io desideravo, che era qualsiasi cosa. A me bastavano il dolore e la nostalgia. Mio Gesù, io sono la vostra vittima. Gli occhi del corpo non piangevano, ma quelli dell'anima ne facevano le veci: furono lacrime dolorose, ma sempre conformate alla volontà del Signore. Passano gli anni: arriviamo al 1950. Alexandrina è sempre in martirio crescente: riconosce che senza la grazia divina non potrebbe resistere: ... Io, senza la grazia divina, non posso resistere al pensiero di non poter mai più alimentarmi, alla nostalgia di cibo: è un tormento vivissimo che mi ferisce invisibilmente. Mle volte sento un tale sfinimento nel cuore e una tale angustia che mi pare di lasciare il mondo per sempre. Fino alla fine perdura il tormento del corpo per la mancata alimentazione: la natura non si abitua! Infatti nel dicembre del 1954 detta nel Diario: ...Mi venne la nostalgia dell'alimentazione: nostalgia da morirne! Volevo mangiare tutti i cibi: solo il mondo intero pieno di leccornie mi avrebbe potuto soddisfare.

La fame-sete di Alexandrina, come riflesso della fame-sete di Gesù per le anime.

In molti accenni alla fame e alla sete fisica di Mexandrina troviamo un aggancio con la fame-sete che Gesù ha di anime. Alexandrina, come per altri tipi di sofferenze spirituali, sente quasi riflessi nel suo fisico i tormenti relativi. Ecco quanto detta, per esempio, nel Diario del 27 marzo 1945: ... Tre anni senza alimentarmi e senza la mia amata crocifissione (con movimenti)! Piansi per la nostalgia di essa e per la nostalgia dell' alimentazione. Non potei trattenere le lacrime. Ma la mia anima stava in pace, contenta dei disegni e dei doni di Gesù... Mio Dio, mio Dio, mio Gesù, le mie lacrime non sono di disperazione: sono di amo sono lacrime di rassegnazione. Mi conformo alla vostra divina volontà. Con questo dolore e queste nostalgie posso pensare e sentire più al vivo ciò che sono le vostre nostalgie, le ansie e la vostra fame di anime, il dolore che esse Vi cau sano con il loro perdersi. Voglio, Gesù, e amo tutto quanto Voi vorrete inviarmi... E nell'estasi del 28 giugno 1946 si sente dire da Gesù che anche la sofferenza del digiuno concorre a renderla più somigliante alla Vittima divina. Leggiamo il seguente dialogo tra Gesù e lei: Io sono la tua vita: tu vivi di me. Di, scrivi: te lo ordina Gesù. Dì perché sappiano: sei la mia sposa e io il tuo Sposo... Di, perché comprendano. Per te faccio di più di quanto feci nel deserto: ti dò la mia carne, ti do il mio sangue. E questo non è vita migliore, manna migliore, più dolce della manna del deserto? Dandomi io tutto a te, non ti lascio senza conforto. - Mio Gesù, perché mai, poiché Vi possiedo così, io sento tanta nostalgia di alimentarmi e tante volte nei miei leggeri sonni sento questa voglia e mi sveglio come se stessi a inghiottire per alimentarmi? - Figlia mia, figlia mia, stella del mondo, arcobaleno di tutta l'umanità, possedendoti interamente, amandoti e arricchendoti come nessun'altra anima e facendo in te la copia più fedele della mia divina Passione, non potevo tralasciare di associarti alla mia sete, alla fame che ho di anime. Non sai che io soffro questa sete, questa fame notte e giorno? È più completo il ritratto di Gesù nella sua sposa. Abbi coraggio! Questa nostalgia e questa ansia non cesseranno: termineranno solo nei tuoi ultimi momenti. - Nel Diario del 14 novembre 1947 si legge: Quando la sete, gli ardori della febbre mi bruciavano di più e alle volte nemmeno potevo rinfrescare almeno la bocca né le labbra con un po' di acqua per la quale mi pareva di morire di nostalgia, fissavo 1' immagine del Sacro Cuore di Gesù dicendogli: - Cosa deve essere mai, mio Amore, la vostra sete di anime! Voglio darvele tutte, tutte: siete morto per tutte, bruciato d'amore e per tutte continua la vostra sete ardentissima. O Gesù, la mia sete sia per Voi e per le anime! - Mi pareva che in quei momenti la mia sete fosse per un po' attenuata.

Il miracolo del digiuno è un altro martirio di salvezza.

In varie estasi si sente affermare da Gesù che il suo sacrificio del digiuno è voluto da Lui e serve per la salvezza delle anime: fa parte del suo piano divino per continuare la Redenzione: - ... Il martirio unito al digiuno sarà il maggior mezzo, l'ultimo mezzo di salvezza... Il martirio salirà al massimo; l'amore raggiungerà la massima altezza. L'amore a Gesù, il dolore per le anime: riparazione senza l'uguale!... ... Io non ho sosta nè di giorno nè di notte: è insuperabile la sete, la fame che ho di loro (delle anime). È la tua fame, è la tua sete: è Cristo crocifisso in te. Ti ho amata tanto da farti simile a me fino a questo punto! Quando cominciai a farti vivere senza alimentazione, già avevo in vista il tuo doloroso martirio per soccorrere le anime. Anche dalla Madonna si sente dire che il suo digiuno è voluto da Dio: l'umanità, per chiamarla a Sé, al suo divin Cuore, mediante tale meraviglia. Lascia che ti copra col mio manto di tristezza, con il mio manto di dolore affinchè, con questa testimonianza, attraverso i tempi tu possa essere invocata per tutti i dolori dell'anima e del corpo: invocandoti dalla Terra quando sarai in Cielo, sarai invocata quale martire dei dolori, per conforto e balsamo dei dolori umani. - Alexandrina sente da Gesù ribadire il confronto tra lei e Se stesso: lei vittima per amore e Lui vittima per amore; questo anche a proposito del digiuno. Per esempio il 10 aprile del 1950 si sente affermare che il suo digiuno ha il valore di un «segno»: ... Profondo significato! Tu ti senti sazia fino al massimo, eppure hai nostalgie di alimentazione; anch'io sono sazio dei crimini, della iniquità di tutta l'umanità, eppure ho desiderio ardente di possederla: ho nostalgie, ho fame e sete di lei. Tutta la tua vita assomiglia alla mia: tutta questa sofferenza è sofferenza della vittima. Confida, confida, confida, figlia mia!... Alexandrina stessa sente la sua fame fisica come segno di una realtà spirituale: anche lei, come Gesù, sente fame di possedere il mondo. Per esempio il 2 aprile 1954 detta: .... Non potrò mai dire ciò che sentii il giorno 27 marzo, 12° anniversario del giorno in cui cessai di alimentarmi: la fame era molto grande, molto grande, era infinita; ma non era fame di alimentazione. Stavo come se avessi il petto ed il cuore aperti; il mondo veniva verso di me, come se fosse onde del mare; quante più onde avevo, tante più ne venivano e io tanto più andavo incontro ad esse e maggiore era l'ansia di possederle. Quel mare era l'umanità e tutto quel mare era mio e poteva essere contenuto nel mio petto e cuore. Soffrii amaramente, infinitamente perché non tutto quel mare voleva entrare in me. Soffrii da sola, in silenzio: i miei sfoghi furono con Gesù e con la Mamma celeste. Alexandrina ha fame di possedere anime, ma sente anche la fame che le anime stesse hanno delle sue sofferenze salvifiche; e ne ha sofferenza grande: si sente come tutta succhiata da loro. È impressionante e chiarissimo quanto si legge nella sua Lettera a p. Pinho del 12 dicembre 1954: Nuovo martirio nell'anima. Essa è come un gambo di lino già pelato; alle sue fibre tutte sanguinanti vengono a succhiare tutto il mio essere, tutto il mio sangue e si aggrappano a queste fibre: ora è un essere che ha la grandezza del mondo, ora sono molti come uccelli in stormi. Ma questo qualcuno che rappresenta il mondo e gli altri che si presentano in stormi hanno mani con artigli, occhi stralunati, capelli scarmigliati, sono degli affamati insaziabili, sono dei perfetti scheletri. Io non ho più sangue, non ho più essere da dare loro. L'anima si stanca e muore di sgomento... Gesù in un'estasi mi disse che questo che sento nell'anima è il mondo, sono le anime che vedono già gli orrori dell'inferno, aggrappate alle fibre della mia anima a succhiarmi tutta per non perdersi. Nel Diario del 24 dicembre 1954 ritorna ad esprimere questa sua sofferenza; qui è messa anche in evidenza l'azione di Satana che vuole afferrare le anime che si aggrappano a lei: ~ Ho nell'anima gli artigli di quelli che succhiano il mio sangue. Per maggior tormento talvolta un serpente grosso, molto grosso si arrotola in un piccolo trono, oppure, sostenendosi sulla estremità della coda, si lancia con dei salti, con la bocca aperta e la lingua fuori, da una parte e dall'altra tentando di divorare quegli artigli aggrappati alle fibre della mia anima: essi, spaventati, si aggrappano di più causandomi maggior tormento. Siate benedetto per tutto, mio Signore!...

 

   

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